La Commedia

Canto I

Nel mezzo della birra della sera
mi ritrovai per una selva oscura
che la diritta via, ahimè, non era.

Ahi, quanto a dir qual era è cosa dura
quella birra trappista e ambrata e forte
che nel pensiero sdoppia ogni misura

e a le caviglie arrider fa le storte;
ma non trattiam del ber ch'i' già trovai:
dirò de l'altre cose ch'i' n'ho scorte.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di nebbia a quel punto
in cui la birreria abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto
là ove terminava quella strada
che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, dove si dirada
un poco la boscaglia, e ver' le stelle,
capii ch'i' era giunto a la contrada,

ne le membra 'l sentivo, e ne la pelle,
che non conosce neanche un punto fermo:
là rotean teste più che le rotelle.

E caddi come cade corpo infermo.

Canto III

«Per me si va ne la città indolente,
per me si va ne l'etterno torpore,
per me si va tra la perduta gente.

Il vizio mosse il mio alto fattore:
fecesi di divine luppolate,
somma capienza e biondo fulgore.

Birre anzi me non furon fermentate,
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne pudore, voi ch'intrate.»

Queste parole su uno sfondo oscuro
rilucevano al sommo d'un locale;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

Ed elli a me, con un ghigno amicale:
«Qui le norme non sanno l'interdetto,
ogne freno convien che qui sia frale.

Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti festeggiare
d'aver bevuto il mal co' l'intelletto».

E poi tirandomi per avanzare,
con lieto volto, ond'io mi confortai,
superammo la porta ne l'intrare.

Quivi risate, canti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle
per ch'io al cominciar ne strabuzzai.

Diverse lingue, sardoniche favelle,
parole colorite, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e brindisi con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell'aura greve di persone,
come lo stadio se vittoria ammira.

E io ch'avea adocchiato già il bancone
dissi: «Maestro, è vero quel ch'i' vedo?
v'è birra scura, ne prendo un fustone!»

Ed elli a me: «È ben misero, credo,
cercare triste un goccio di ristoro
sanza pria scorrer la lista, che or chiedo.

Mischiati sono a quel gustoso coro
de li malti che non furon ribelli,
altri malti malversi, gran disdoro.

Distinguer sappi costoro da quelli,
ne lo profondo cognoscer tu devi
ch'alcuna gloria avresti, a bever d'elli».

Allor con li occhi vergognosi e grevi
m'accinsi a ricercar l'ascosa piaggia
ov'eran delle birre, carte lievi.

Ma come quel che ha testa poco saggia
non m'avvidi che incipiava battaglia
proprio là ove la strada mia m'ingaggia:

mi ritrovai nel mezzo di gentaglia
che non so di che strepita o che lagna,
e una gran sedia al capo mio si scaglia.

Successo questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l'uom cui sedia piglia.

Canto V

Il famoso frammento detto “del gruppo di auto aiuto”

«Liquor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Liquor, ch'a niun beone ber perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Liquor condusse noi ad una sorte
maiala al punto che a vita ci spense».
Queste parole da lor mi fuor porte.

Canto VIII

Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al loco del rave giunti
li occhi nostri n'andar suso a la cima

per quattro scoppi di poco disgiunti,
e un altro da lungi, oltre l'asfalto,
poi colpi e voci par ovunque spunti.

E io mi volsi al savio d'ogne malto;
dissi: «Questo che grida? E che risponde
quell'altro foco? E chi è a far questo assalto?

Ed elli a me: «Son le sudice ronde!
già scorgere puoi quello che c'aspetta,
se 'l fummo del pantan non ci nasconde».

Lanciator mai scagliò da sé freccetta
che sì corresse via per brezze snelle,
com'io vidi ciascun che festa alletta

scappar, per non finir sovr'a barelle:
dietro in divisa, vigili, e su moto,
gridavan: «Or se' giunte, anime felle!»

«Georgiedìm, Georgiedìm, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai. E puoi suggerci lo scroto.»

Qual è colui che grande offensa ascolta
che li sia fatta, e poi se ne rammarca,
fecesi Georgiedìm ne l'ira sciolta.

Lo duca mio discese ove si inarca
la terra in un pendio, e io appresso lui,
e tosto voci dietro: «Carca, carca!»

Ma poi che 'l duca e io ne l'ombra fui,
cercando fessa dove far dimora
che non trovasser Georgiedìm o altrui,

nostra fuga versò tosto in malora:
agen' m'apparve innanzi, d'alto rango,
e disse: «Fermo, tu che vieni anzi ora!»

E io a lui: «Son scemo? Non rimango,
sì ben niente i' abbia fatto che sia brutto»
Rispuose: «Crierai “mia nascita piango”».

E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, tu t'insani:
se è ver che sie così se' lordo tutto».

Quindi mi mise addosso ambo le mani
e verso 'l suolo e 'l lezzo mi sospinse
dicendo: «Giù costà, zecca de' cani».

Lo collo poi con un braccio mi cinse,
colpimmi 'l volto e disse: «Blatta schifosa,
che bordello, colei che 'n te s'incinse».

Rapace giunse compagnia biliosa:
Georgiedìm lo mio duca affondò al brago
ruggendo la rivalsa sua furiosa.

Disse al graduato: «Molto sarei vago
di poterlo attuffare in quella broda
nella pozza là in basso, in riva al lago».

Ed elli a lui: «Mi par degno di loda
questo pensier, sì che tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».

Dopo ciò poco vid'io tanto strazio
far del maestro a Georgie ed agli agenti
che Dio ancor oggi appello, in nullo sazio.

Anzi, vi parlo fuori dalli denti:
fu un caso veramente, e pur bizzarro,
ch'ei non lasciasse l'alma a quei tormenti.

Di che fecero a me, ora non narro.

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